venerdì 20 marzo 2015

Legalize lavoro nero

Legalize lavoro nero


di Nadia Covacci

L’importanza del lavoro e del lavorare risiede nella possibilità che offre all’individuo di esprimere se stesso, di valutarsi e modificarsi in relazione all’esperienza lavorativa, di coltivare rapporti interpersonali che aiutano a costruire un’identità di sé, di avere un rientro economico corrispondente all’impegno richiesto che, non dimentichiamolo, permette anche la sopravvivenza fisica dell’individuo.

Sono effettivamente rimasta stupita quando dagli uffici che gestiscono l’inserimento lavorativo delle categorie protette mi è stato presentato il lavoro come un modo per socializzare, dimenticando totalmente tutti i significati che il termine acquista per ciascuno di noi e l’importanza che ha per l’acquisizione di un’indipendenza psicologica ed economica ancora più marcatamente forte per una persona con disabilità che deve sostenere quotidianamente delle spese non indifferenti. Sono successivamente rimasta basita e senza parole quando mi è stato dichiaratamente detto che una persona con disabilità laureata ha studiato troppo – e che è troppo intelligente, come se all’intelligenza ci fosse un limite - per poter essere assunta come categoria protetta. Non riuscivo a capire la logica che sta alla base dei loro discorsi, non riuscivo a comprendere come mai la persona con disabilità, essendo una risorsa umana, dovesse essere collocata tramite in processo assistenziale e non lavorativo.

Una giustificazione che ho sentito è quella della presenza di una cultura contadina locale rimasta tale anche quando i contadini sono diventati piccoli e medi imprenditori; mantenendo così una certa ignoranza sul tema del lavoro e in particolare del lavoro per le categorie protette. In effetti, in Italia sono le grandi multinazionali italiane ad avere un altro approccio verso i dipendenti con disabilità. Barilla, ad esempio, due anni fa ha assunto 20 persone laureate per inserirle a tempo indeterminato nei suoi uffici. Michelin, invece, ha investito sulla formazione ai quadri e ai dirigenti per togliere il velo della diffidenza, del pregiudizio e diffondere una visione della persona con disabilità come risorsa.



Ma questa può essere una giustificazione in parte perché il compito dei responsabili dell’inserimento lavorativo, dai servizi sociali ai Centri per l’Impiego, è anche e soprattutto quello di colmare le lacune culturali dei nostri datori di lavoro. Un’altra motivazione è quella del “se guadagni più di 5000 euro all’anno ti tolgono la pensione”. Sì, ma a fronte di una pensione di 230 euro al mese – che tolgono, ma che ti ridanno appena smetti di lavorare - non sarebbe comunque meglio guadagnarne 600?

Quando incontri persone diplomate e laureate la cui unica caratteristica è essere mancanti nel fisico che lavorano part-time presso gli enti pubblici per 200 euro al mese senza contributi, quindi a tutti gli effetti in nero, attraverso una forma di assunzione chiamata tirocinio che dovrebbe essere destinata all’inserimento lavorativo, ma che nei fatti si traduce in un tirocinio perpetuo senza corrispondenza alcuna con le capacità effettive della persona l’indignazione è necessaria. Con la scusa del tirocinio ci sono persone a Reggio Emilia che “lavorano” in questo modo per 6, 10, 26 anni, per di più in luoghi pubblici come Urp e Ausl (ad esempio nei padiglioni dell’ex San Lazzaro) e viene spontaneo immaginarsi due situazioni:

1 - O si tratta di persone che lavorano al pari degli altri, quindi sono legalmente sottopagate e sfruttate solo in base alle loro caratteristiche fisiche. Se tramite il lavoro e il confronto con i colleghi io costruisco e modello la mia identità, lavorare in un ambiente dove i miei colleghi fanno il mio stesso lavoro, ma vengono pagati come da Contratto nazionale rinforza la mia percezione di valere meno degli altri. È un atto discriminatorio a tutti gli effetti oltre che fortemente deleterio per l’individuo che la subisce.

2 - Oppure sono assunte senza alcun ruolo preciso, trascorrendo il tempo facendo praticamente nulla, pur potendolo fare grazie a un titolo di studio. Essendo uno degli scopi del lavoro quello di esprimere se stessi consolidando competenze acquisite e apprendendo capacità nuove, un individuo che durante il giorno non ha nulla da fare e si ritrova a girovagare nello stabile chiedendo agli utenti se hanno bisogno di qualcosa è una forma di svalutazione della persona e delle sue capacità che altrove, in Italia, prende il nome di mobbing.



I servizi di inserimento lavorativo, talvolta coordinati da cooperative, tendono a seguire percorsi rivolti a individui con patologie intellettive e psichiatriche; il che rinforza l’abitudine consolidata delle aziende di assumere il disabile meno fastidioso: quello che può fare il meno possibile, quello che si può mettere in qualunque posto a fare poco, quello che non richiede nessuna spesa per abbattere le barriere architettoniche (eh, sì, molte volte ai colloqui non ci si può andare perché le aziende vogliono assumere disabili senza essere accessibili). Paradossalmente il mercato del lavoro per le categorie protette si divide tra coloro che possono fare il meno possibile, come sopra, e coloro che sono meno disabili degli altri, ovvero tutte quelle persone che fanno parte delle categorie protette, ma che hanno una disabilità meno evidente e meno disturbante. Il tutto rinforzato dal fatto che il Ministero degli Affari Esteri ha deciso che nelle categorie protette rientrano altresì gli orfani e i coniugi superstiti dei soggetti caduti per guerra, servizio o lavoro e dei profughi italiani rimpatriati (art. 18), nonché i soggetti individuati dalla Legge 23 novembre 1998, n. 407 (vittime del terrorismo e della criminalità organizzata).

Tempo fa lessi sul sito dell’Emilia Romagna Sociale un articolo in cui si elogiavano i risultati della Provincia che in 5 anni era riuscita a inserire nel lavoro più di 2000 disabili, ma la domanda che sorge spontanea è: 2000 persone inserite nel lavoro, ma come? Con quale contratto? A quali condizioni? Troppo spesso l’Emilia si vanta di ciò che fa puntando su un discorso numerico che però non dice nulla dell’aspetto qualitativo e non necessariamente le due facce coincidono - del resto gli emiliani sono conosciuti per essere sboroni.

L’aspetto strabiliante di tutta questa faccenda è che se da una parte le associazioni, gli enti pubblici, le aziende e i responsabili dell’inserimento lavorativo mettono in atto progetti come questi perché evidentemente gli è permesso farlo, dall’altra parte c’è tutto un mondo di persone con disabilità che accetta queste condizioni consolidando un’idea di se stessi come coloro che non possono fare di più e non possono ottenere di più, il cui titolo di studio vale meno di quello dei coetanei, che lavorano per socializzare, che in ufficio ci vanno per sentirsi normali e non per esserlo realmente. Per questo sono fermamente convinta che la colpa di questo sistema sia da entrambe le parti: da un lato il mondo del lavoro che non ha ancora imparato che i dipendenti sono risorse umane e dall’altro il mondo della disabilità che cede a questi atteggiamenti discriminatori, con le famiglie in prima linea perché avere un figlio intelligente, ma seduto non significa dover accettare di farlo lavorare a queste condizioni – i laureati, anche non disabili, sono ben disposti a lavorare in un call center, ma a uno stipendio orario consono.

E così si allarga quella massa di persone invisibili che sanno di valere come gli altri e per questo non accettano di uniformarsi a un modello di inserimento lavorativo fasullo e alienante. Si tratta soprattutto di coloro che disabili lo diventano a causa di un incidente, di tutti quei 20enni e 30enni che di colpo si vedono chiudere le porte del mondo del lavoro, e non solo, a causa di una gamba in meno. Si tratta di persone, uomini e donne, che hanno una loro vita sociale, hanno amici, hanno compagni, hanno mogli e figli e sanno benissimo che il lavoro non serve per socializzare. O almeno non solo.

Ecco così che l’Emilia Romagna sociale si dimostra un bluff, un’apparenza, un buco nell’acqua. O forse semplicemente si muove con l’intento di coltivare dei disabili il meno autonomi possibile in modo che da adulti vadano a vivere negli istituti come Casa Ferrari o Settimo Cielo dove sopravvivono pagando rette giornaliere in cambio della loro libertà.

C’è chi sostiene che in un periodo di crisi bisogna adattarsi, ma ci tengo a chiarire che questa non è una modalità nata negli ultimi anni per cercare di fronteggiare il momento di difficoltà del mercato economico, ma è un modus operandi che ha le sue radici nel passato, da molto prima che la crisi arrivasse altrimenti non si spiegherebbe perché un individuo possa aver fatto un tirocinio per 26 anni.

È difficile se non impossibile avere un dialogo con le istituzioni che decidono sulla nostra vita, ma mi chiedo se l’assessore alle Politiche Sociali, Matteo Sassi, fosse disponibile a lavorare a 200 euro al mese senza contributi e senza possibilità di miglioramento. E il signor Sindaco che ha una famiglia numerosa permetterebbe ai suoi figli laureati di lavorare per 1,60 euro all’ora per un numero di anni non definito in un call center o un centralino, non nell’ambito nel quale si sono specializzati, senza versamento di contributi?

Forse la postazione di pesca per disabili costruita a Novellara serve perché l’unico modo che queste persone hanno per mangiare è pescarsi da soli il cibo.

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